Che cos’è questo spot!
Tiriamole fuori anche noi queste idee!
Il materiale non manca.
di marco dewey
Che cos’è questo spot!
Tiriamole fuori anche noi queste idee!
Il materiale non manca.
di marco dewey
Che amore con i Supergrass! Acquistati sin dal primo album.
C’è un’aria diversa in questo, ma a me sta bene così. Credo sia il loro migliore.
Devo ammettere che appena ascoltato la mia impressione non è stata granché bella.
E anche la seconda volta l’apprezzamento era decisamente parziale.
Mi ci è voluta un po’ di attenzione extra per superare, forse, quella fastidiosa impressione di cambiamento dal percorso fin lì fatto e che più amavo.
L’album parte alla grande.
L’intro strumentale di Tales of endurance (Parts 4, 5 & 6) ti conquista subito. Riff di chitarra ritmica, timbro brillante, a cui si aggiunge il piano come strumento dominante.
La vocazione epica del gruppo qui si fa sentire tutta. Compreso lo stacco di fiati che in compagnia del basso di Mickey Quinn e del piano di Robert Coombes annuncia altro. L’inizio del cantato. E’ breve e imponente, da grande orchestra che sembra immersa in una foresta. Che ci sia un corno o no, non importa; sembra l’inizio musicale di una caccia alla volpe. Perfetto.
Da qui in poi parte, per pochi secondi da solo, un piano che mi ha fatto venire alla mente Cannonball dei Supertramp, ma è tanto che non l’ascolto. A chitarra ritmica e piano, che seguono gli stessi giri dell’intro, si aggiungono basso, batteria e cantato. Altro stacco di fiati, che annuncia il nuovo cambio di carattere. La parte sei, evidentemente.
Qui mi sembra di ritornare indietro di trent’anni. Il riff dominante mi ricorda tantissimo Achilles Last Stand dei Led Zeppelin. Un giro insistente di chitarra elettrica, che evoca anche per timbro proprio la lunga canzone degli Zeppelin. Mentre scrivo non ho ancora letto altre recensioni di questo disco, e vi confesso che sono curioso di verificare se altri hanno avuto la stessa mia sensazione.
St. Petersburg è il primo singolo. Una ballata lenta in cui spunta sulle altre le note del piano di Robert Coombes. A me pare bellissima e in perfetto tono con il disco.
Bella, ma senza grandi spunti Sad girl, la cui parte centrale mi fa pensare ai Beatles, ma la butto lì. Insomma, visto che non ricordo la canzone potrei sbagliarmi.
Roxy è l’omaggio di Gaz Coombes alla mamma scomparsa da poco. Lo spirito musicale dei Supergrass, sempre pronto a volare alto colpisce ancora.
E’ splendida. E’ serena. Una ballata rock pronta a rinchiudersi e a ripartire.
Dopo due minuti e mezzo la parte cantata termina, dopo tre e mezzo comincia a cantare la sofferenza della chitarra di Gaz e poi quella di tutti gli altri strumenti come in un rincorrersi confuso ma deciso verso l’annullamento delle proprie capacità, verso l’oblio.
Coffee in the pot ? Una canzone strumentale e divertente che ci riproietta negli anni sessanta. Ora manca solo un video in Eastmancolor con una delle tettone di Russ Meyer. Cheddire, son tornati i Ventures. Una cosa fra le altre: identico suono di chitarra.
Road to Rouen proprio non mi cala. Sarebbe pure un pezzo pensato bene e suonato pure, ma la melodia è davvero inconsistente e abbastanza odiosa. Il risultato è che dura 3:51 e invece ne sembrano cinque e mezzo.
Da qui alla fine è tutto uno spettacolo.
Il ritmo e il giro di Kick in the teeth mi fa subito tornare indietro a In it for the money. Che grandi i Supergrass!
Low C è un’altra ballata lenta, intima ma di ampio respiro, in maggiore per intenderci. Uno dei tre singoli. La melodia, lo sviluppo della canzone, delle sue emozioni, unito al graffiato in post-produzione della voce di Gaz e al timbro brillante e naturale degli altri strumenti me la fanno adorare. E il video? Consigliatissimo. Quanto può essere simpatico Danny Goffey?
Fin, in analogia con Los Endos dei Genesis o The end dei Beatles, è il pezzo che porta a termine l’album come promette il nome. E lo fa altrettanto bene dei predecessori citati. Altro singolo, nell’ambito di un album complessivamente molto spartano, sembra il brano più lavorato in post. E’ splendido. Una ninna nanna a metà; non usabile come tale, purtroppo. Un arpeggio morbido, ma a volume troppo alto per rientrare nella categoria pratica, troppo alto anche il chorus. Il ritmo, però, così come il testo ne tradisce la natura: “Leave your light on tonight”.
Qualcuno definirebbe Road to Rouen un disco intimista, riflessivo, soprattutto rispetto a come siamo abituati a considerare i Supergrass. Energetici, precisi, d’impatto immediato.
A me sembra soprattutto un album maturo e di gran classe.
Che ha un notevole pregio rispetto alle altre loro produzioni. Regge molto bene la prova del tempo e quella dell’ascolto ripetuto.
E conferisce al gruppo una nuova dimensione.
di marco dewey
PS: Ci si becca al concerto a Bologna il 5 novembre.
Anche il disco di quest’anno è splendido a parte le prime due canzoni, un po’ troppo White Stripes.
Durante la trasmissione di Maria Latella a SkyTG24, Concita De Gregorio, direttrice de L’Unità, molto pacatamente e in risposta alla critica di La Russa a Veltroni, che non ha ricordato nella manifestazione del 25 ottobre i soldati morti nell’incidente di elicottero in Francia di due giorni prima:
“Mi sembra insolitamente in difficoltà dopo questa manifestazione anche il ministro La Russa che di solito è molto brillante. Credo che fare ricorso ai militari morti e ai punti dei sondaggi sia un segnale di difficoltà.”
La Russa [urlandole sopra da “sondaggi” in poi (gli urli sottolineati)]:
“Ehi, signora Concita, io non faccio ricorso ai militari morti. Si vergogni! Con la sua faccina educata. Non parli dei militari morti con quel tono! Ha capito? Ignorante che non è altro! Ma vergognati, Concita! Con la sua faccettina così! Se lo doveva ricordare lei di dire di parlare dei morti durante la… ma si vergogni! Io, perché sono in difficoltà parlo dei militari morti!! Ma si tappi la bocca! Con un turacciolo se la tappi! Vergogna, Concitina! Vergogna! Non ne parli, guardi. Lei fa bene a non parlarne! Che su L’Unità… Non ne parli. Mi innervosisco quando lei dice cosa devo fare.
Ecco, allora. Questa signora ha già dato prova di sé.
Ma non faccio ricorso al lutto! Siete voi che vi siete dimenticati. Che vergogna. Guardi, se lei parla di questo io mi alzo e me ne vado!”
La De Gregorio continua a parlare lentamente e con lo stesso tono da “Ha capito?” in poi:
“E’ lei che ne ha parlato. Mi sembra che fare ricorso al lutto delle morti dei militari sia inappropriato, no? Mi sembra assolutamente inappropriata anche questa sua reazione. Gli spettatori giudicheranno. Ho detto che mi sembra in difficoltà qualcuno che fa ricorso al lutto dei militari quando si sta parlando d’altro. Si sta parlando di una manifestazione”.
Tralasciando le questioni di merito, che hanno visto nel PD l’unico partito a compiere un atto ufficiale rispetto a quella situazione, questi i fatti: un ministro attacca ad alta voce, insulta, deride il nome di un giornalista in una trasmissione nazionale.
Anzi no. Un ministro attacca ad alta voce, insulta, intima di zittirsi e deride con un diminutivo il nome proprio di un direttore di giornale in una trasmissione nazionale.
Anzi no. Un ministro maschio inveisce ad alta voce contro una signora, direttrice di giornale, le intima di zittirsi, di tapparsi la bocca con un turacciolo, ne deride il nome proprio, il tutto urlando in una trasmissione nazionale.
Sì. E’ successo per davvero. E’ una cosa enorme. Una cosa da scuse ufficiali alla nazione. Una cosa per cui chiedere le dimissioni del ministro La Russa.
“Lo zeitgeist attuale” si dirà. “Te ne meravigli ancora?” mi chiederete. No. Non me meraviglio più. Faccio solo in modo di gridarlo al mondo quanto più posso.
Questo il comportamento dei giornali online. Commento pur senza video fra i giornali nazionali l’ho trovato con ragioni alterne solo su Il Messaggero e su L’Unità.
Repubblica e Corriere hanno il video già da un pezzo nell’archivio multimedia: Repubblica già fuori dalla homepage, entrambi senza articolo a commento.
Senza importanza, senza conseguenze! Giornali che invece ne hanno quante ne vogliono di “talking heads”. E’ una scelta politica? E’ un segnale di scoramento?
Per gli altri giornali, invece, solo vuoto spinto, solo una questione marginale evidentemente.
Nessuno dei nostri quotidiani nazionali, nella loro versione online, (solo velatamente L’Unità, che essendo parte in causa ha pensato di scegliere un profilo basso) ha voluto suggerire nel comportamento del ministro Ignazio Benito Maria La Russa, indegno della carica che rappresenta, i liquami di un maschilismo fascista malcelato intrinseco alla cultura di provenienza. L’arroganza del potere che non teme nulla, nemmeno quello di zittire volgarmente e in diretta nazionale una signora. La sfacciataggine e la prepotenza propria di chi è costretto a urlare sempre e comunque, che abbia ragione o no, ché anche solo accettare in parte l’assunto di una giornalista significherebbe essere deboli agli occhi del capo.
E in una compagine governativa che fa del mostrarsi più forte degli altri, più filoberlusconiano degli altri, più oltranzista degli altri, l’essenza del proprio fare politica, e dove un semplice segnale di moderazione e di accettazione delle ragioni dell’avversario non è contemplato, il ministro La Russa in questa occasione come in altre ha pensato bene di poter lasciare libero sfogo alla sua vera natura, di essere se stesso, di sembrare a molti un fascista per modi e atteggiamenti.
Anzi no. Non lo sa nessuno. Non ne scrive quasi nessun giornalista istituzionale. Perché? Non interessa a nessuno?
Cosa è più grave?
Cosa rende chiaro lo “spirito del tempo“: la manifestazione o il silenzio?
Ignazio Benito Maria La Russa che zittisce volgarmente una signora o Maria Latella che non trova di meglio da fare che, sorridendo, chiedere al ministro di non usare un tono che non appartiene alla trasmissione?
di marco dewey
La prima volta che l’ho messo su -che pivello che sono! – Amorica ha dovuto scontare il confronto inevitabile con l’immediatezza dei loro primi due album, che definirei un southern rock potente e semplice, con accenni di blues e funk, di cui personalmente faccio fatica ad inquadrare precedenti significativi.
Due album, Shake your money maker (1990) e The Southern Harmony and musical companion (1992), diretti, davvero facili all’ascolto. Di sicura presa.
Davvero di un altro livello Amorica. Subito mi sono piaciute quattro canzoni, ma rimanevano dei dubbi sul suo valore assoluto.
Il rock di ampio respiro di A Conspiracy. Il riff funk di Rich Robinson a tratteggiare la prima strofa, aiutato dai wah della chitarra solista di Marc Ford nella seconda, ci portano deliziati al pre-chorus, che ha funzione ritardante all’esplosione controllata del ritornello. Il bridge ha sapori veramente da anni Settanta, comprese le sonorità vintage del sintetizzatore. La canzone non ha davvero una nota o un suono fuori posto e rimane piacevole fino al termine. Un classico.
High head blues è un blues mascherato molto molto bene da un ritmo caraibico, che il giro della chitarra ritmica e poi anche delle tastiere e le percussioni richiamano per tutta la canzone, tranne nei pre-chorus e nell’assolo di chitarra molto blues rock di fine canzone.
Ballad in urgency e Wiser time sono canzoni legate l’una all’altra nel disco, le uniche due non separate da una pausa, come se la seconda dovesse concedere il respiro musicale che alla bella melodia un po’ frustrante della prima è negato. In Wiser time ci sono infatti cento secondi di libero e tranquillo sfogo strumentale che riappacificherebbero chiunque con la musica.
Ora parliamo del resto del disco.
Gone (track #01) potrei definirla un frammentato ma organico ensemble sincopato un po’ angosciante. Una di quelle canzoni che ti fa pensare che tu non ci saresti mai arrivato. Musica.
Cursed diamond è un altro blues crescente nei toni [ma non vi dovete spaventare di tutti questi blues, perché se piacciono a me che notoriamente odio il blues old style, chitarra e armonica, che trovo insopportabile e palloso alquanto, piaceranno anche a voi]. Questa è una band rock che ama suonare, che le invenzioni sembra le trovi suonando, che ama sovrapporre. E le melodie restano splendide.
Nonfiction toglie di colpo la rabbia e l’urlo straziante della canzone precedente. La adoro.
Altra esplosione di musica anche se più spensierata in She gave good sunflower.
Scorrevole e piacevole la ballata Descending.
Anche la bonus track Tied up and swallowed merita attenzione. Può essere accostata per il ritmo frammentato con Gone; bella, ma forse sarebbe stata meglio negli album precedenti.
Downtown money waster è roots-rock, o forse meglio dire southern rock alla vecchia maniera, e proprio non riesco a mandarla giù anche se suonata bene.
P. 25 London la cancellerei dal disco. Mi chiedo, ma non bastavano 55 minuti?
Rob de matt.
Ultimi consigli. Tranquilli, questo non è un disco che si apprezza subito come si deve. Con un po’ di fiducia al terzo, quarto ascolto comincerete a goderne la ricchezza sfacciata. Perché questo è un disco ricco, opulento. E solido nel tempo.
di marco dewey
Molti di voi conosceranno già l’estro postmoderno di Beck Hansen, probabilmente la ragione principale per cui lo abbiamo amato sin dal suo esordio.
Agli inizi degli anni novanta ci ha stupito con uno stile tutto suo, riconoscibile dopo pochi secondi – “Questo è Beck!” – .
Proprio quando il massimo della commistione ci sembrava potesse essere quella fra due o tre stili, lui ci ha sorpreso con la ricchezza della sua partitura.
La musica elettronica spesso a fare da sfondo o da legante in quelle variazioni che spesso aprivano la strada a quei repentini cambi di atmosfera, anche due o tre in mezzo minuto. Ballate rock, funk, rock duro, musica dance, rap, country, blues, che si incontrano nello stesso album.
Uno di quegli album è Odelay (1996) ed Euterpe mi ha costretto a comprarlo, così come nel 1999 mi ha imposto di scaricare Loser da Napster.
Se si scorre la sua discografia ci si accorge che di solito alterna album ritmati ad altri un po’ più riflessivi.
Sea change è uno di quelli più interiori, più “normali”.
Di quegli album che si reggono sulle melodie, sugli stati d’animo che evoca, sugli accordi impensati. Immaginare un disco così è ancor più complicato che giocare con la sua fantasia e impressionarci per gli accostamenti azzardati.
Qui si mette in gioco con la storia della musica.
Il risultato è che più lo ascolto e più lo apprezzo.
Trovare difetti a questo album è questione ardua.
Provateci un po’ voi. Per me è un capolavoro.
di marco dewey
Caro Flores d’Arcais, molto semplicemente mi deludono profondamente le sue critiche a Veltroni. Un conto è non gradire i modi e i tempi delle sue esternazioni contro B, un conto è invece presupporre che lui stia affermando certe cose per pura convenienza politica e non perché ci crede. A mio avviso, è tutto il suo operare iniziale in funzione del dialogo (perché in politica si deve cercare il dialogo all’inizio) anche con uno come Berlusconi che pesa a Veltroni. E si trattiene tutto il tempo, e non esagera, perché ogni sua alzata di scudi sarebbe facilmente sfruttata dal megamonopolio informativo, dalle urla gracchianti di un Gasparri o di un Cicchitto qualunque. E invece no, lui si comporta da statista. Spiace vedere che uno come lei, che ho sempre apprezzato tanto, non comprenda tutto questo. Non immagino cosa avrebbe scritto se una volta sbottato non lo avesse fatto con questa forza!
dottormaso mi risponde:
carissimo , con la sua logica ” se walter alza il tiro gasparri e cicchitto……” magari non si disturba e si può finalmente ” DIALOGARE ” . Ma cosa vuole dialogare con questi eversivi piduisti mafio-clerico-fascisti ? sulla tv ? riscrivendo la storia ? oppure per dirla con Violante repubblichini e partigiani avevano pari dignità , rispettiamo tutti i morti , oppure ancora, cito Violante, temi della Giustizia ? e la libertà d’informazione? oppure sul fatto che la Laicità stà oltre tutte le fedi e religioni ? o sull’indulto ? o sull’immigrazione , clandestinità,prostituzione ? IDEA : dialoghiamo sulle bancarotte d’Italia , tutte ? meglio dialogare su come quotidianamente si perdono diritti nei luoghi di lavoro ? ECCO : la Costituzione !!!! è l’ora , non le sembra ? anche il degrado delle città non è male . Ma che Veltroni venga a dialogare nelle Fabbriche , negli uffici e nei call center oppure nei centri commerciali , con i commessi ma vada il sabato e la domenica che loro stanno lì.
Non discuto le sue ragioni, ma ci sono tempi e modi.
Si dialoga perché bisogna dialogare pure con questa gentaglia.
In un paese normale, la rottura con questo tipo di classe politica che commette questo tipo di abusi, andrebbe trattato con la forza che lei/voi dite. Ma qui, ogni cosa viene legittimata, smentita, dimenticata, superata e obnubilata dal vociare del pensiero unico.
Veltroni doveva aspettare, quantomeno i primi mesi per dire le cose gravi che ora ha detto.
E’ un immenso statista, che ha un progetto credibile di Italia.
Preferirei che da sinistra lo consigliassimo, piuttosto che attaccarlo ad ogni tempo e modo non rispettato.
Si vince se non si terrorizza il centro. Dalla sinistra ci si aspetta un moto di comprensione, perché, beh, “ça va sans dir”!
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Bravo, caro Giulietti, davvero. Il suo articolo mi rinfranca.
C’è un gioco al ribasso dei blog anticonformisti, “liberi”, che hanno individuato nel PD il loro obiettivo.
Niente sembra più a loro scontato che ripetere le critiche, articoli che sentono di avere già scritto contro Berlusconi, e allora pensando di fare cosa positiva per la loro autostima “anticonformista”, compiono esercizio di stile contro Veltroni e il PD tutto.
Sinceramente non ne posso più.
Mi fale. Che Italia vogliono costoro? Che tipo di maggioranza immaginano?
Va bene stimolare i vertici, ma cercare le pagliuzze, azzardarsi in presunzioni gratuite di rilassatezza del PD, non va nel senso di un orizzonte politico comune di sconfitta del mostro berlusconiano.
La controcultura a destra ha monopolizzato le menti più semplici e legittimato le scorribande dei cinici e degli speculatori. Vogliamo convogliare le istanze degli anticonformisti contro il PD? Facciamo pure.
E poi vediamo a cosa porta questo atteggiamento di tensione critica continua e severa contro il PD nel 2013.
Concentriamoci sui giornalisti e sugli opinionisti, piuttosto.
E’ sulla coscienza di costoro che si gioca il nostro futuro.
di marco dewey